MISTER CHANGE ALREADY CHANGED IDEAS
Dalla lotta contro le lobby alla chiusura di Guantanamo, Obama ha conquistato il paese a suon di promesse. Due mesi dopo, ecco che fine hanno fatto tutti i suoi “Yes, we can”
Barack Obama era stato chiaro durante la campagna elettorale. La sua amministrazione non avrebbe avuto lobbisti e avrebbe fissato regole rigide contro qualsiasi commistione fra politica e mondo degli affari, fra i corridoi della Casa Bianca e i cosiddetti special interest. Slogan buoni per scaldare le folle nel cuore dell’America che vedono in Washington (democratici o conservatori non fa differenza) una fabbrica dello spreco e della corruzione legalizzata.
Come primo atto da presidente Obama ha messo nero su bianco le sue promesse. Le ha tradotte in una direttiva che fissa regole etiche: nessun lobbista farà parte dell’amministrazione in quei settori per i quali negli ultimi anni hanno prestato servigi alle corporation; e nessuno, una volta uscito dall’amministrazione, potrà trovarsi un ufficio a K-Street (la strada dei lobbisti nel cuore della capitale americana) per il resto della durata della presidenza Obama. Poi, però, nel giro di pochi giorni dallo Studio Ovale sono arrivate le prime “waivers”, esenzioni. Obama ne ha rilasciate ben 17. Diciassette funzionari di nomina politica sono stati chiamati a far parte dell’amministrazione pur non avendo i requisiti “etici” del credo obamiano. La nomina di William Lynn a numero due del Pentagono ha scatenato un putiferio (poi rientrato). Lynn, infatti, è la quintessenza del lobbista. Ha lavorato al Pentagono dal 1997 al 2001 aiutando la Difesa a ridurre le spese non documentate (fuori bilancio), poi è stato lobbista per la Raytheon, azienda fornitrice dei militari Usa, fino al 2008. Per lui Obama ha usato un escamotage geniale: «È l’unico che può occupare quel posto». Lynn, insomma, è il prototipo perfetto per il posto di numero due: è stato dentro la macchina e l’ha oliata bene anche da fuori.
La scelta di Lynn è stata approvata dal Senato con 93 voti a favore e 4 contrari. Numeri che la dicono lunga su quanto business e politica vadano a braccetto, indipendentemente dall’inquilino della Casa Bianca. Vero è che le regole di trasparenza fissate da Obama sono le più severe mai viste a Washington, ma restare testardamente attaccato alla lettera di queste norme sarebbe stato per il capo della Casa Bianca praticamente impossibile. Come è impossibile che tutte le promesse elettorali possano realizzarsi. Non parliamo delle grandi strategie geopolitiche o economiche, che dipendono solo in parte dalla volontà del presidente, ma di tutta una serie di decisioni che a soli due mesi dall’inizio del mandato rientrano già sotto la voce “promesse infrante”.
Più tasse per tutti
«Come presidente non firmerò nessun atto (eccezion fatta per quelli di emergenza) senza dare agli americani l’opportunità di valutarlo e commentarlo sul sito della Casa Bianca per cinque giorni», c’era scritto sul sito web della campagna di Obama. Peccato che il Lily Ledbetter Bill (la legge sull’equità di salario fra uomini e donne), il pacchetto di stimolo all’economia e l’Insurance Program Reauthorization Act of 2009 (nel quale è contenuta l’estensione della copertura medica a 10 milioni di bambini), siano diventati legge ben prima dei cinque giorni promessi. Piccolezza forse. Come l’incremento dell’accisa sulle sigarette. Obama aveva promesso che non avrebbe alzato le tasse per i ceti meno abbienti. Ma l’aumento di oltre il 50 per cento delle tasse su tabacco, sigari e sigarette colpisce proprio le fasce più povere. E, sempre in materia di tasse, il nuovo budget contiene un aumento del 45 per cento della pressione fiscale per l’energia. Costeranno di più da fine 2009 le bollette elettriche, la benzina e in genere tutti i manufatti.
Motivo di imbarazzo per il presidente sono gli earmarks, i soldi destinati a progetti di interesse locale (talvolta dubbio) da senatori e deputati dei vari distretti. Obama aveva definito «rotto il procedimento legislativo che consentiva l’introduzione degli earmarks». Eppure l’11 marzo ha firmato il cosiddetto Omnibus Appropriations Bill, una legge di spesa del valore di 410 miliardi di dollari che contiene ben 8.750 earmarks, pari a 7,7 miliardi di dollari. Il paravento dietro il quale la presidenza cela la contraddizione fra promesse e realtà è che l’Omnibus Appropriations Bill è l’ultimo atto del precedente governo: si cambierà strada in seguito.
Impossibile liberarsi di Bush
Lo iato fra intenzioni e fatti è evidente anche nelle questioni di sicurezza. Uno dei primi provvedimenti di Obama ha riguardato Guantanamo. Il presidente avrebbe voluto chiudere il supercarcere a Cuba entro cento giorni. Ma i suoi consiglieri, dopo aver verificato tutta una serie di intrecci, si sono limitati a suggerire di fissare «entro un anno» la fine dell’esperienza e intanto di chiedere (non potendo ordinare) la sospensione dei processi fino a maggio, in attesa di rivedere le posizioni dei detenuti ancora custoditi. Sulle extraordinary renditions, i rapimenti dei sospetti terroristi e il loro trasferimento in prigioni segrete della Cia fuori dai confini Usa, Obama si è dovuto misurare con una realtà che va ben oltre l’eredità di Bush. Fu infatti Clinton, spinto da Al Gore, a creare il sistema delle prigioni segrete per motivi di sicurezza nazionale. Obama, che pure ha firmato un executive order per chiuderle, ha però concesso alla Cia l’autorità di continuare con le renditions in caso di necessità. L’impressione, suffragata da molti commentatori, è che gli strumenti per la lotta antiterrorismo di Bush non potranno essere scaricati alla leggera. E molte promesse di Obama in questo senso (dal no alle intercettazioni, al ripristino ovunque dell’habeas corpus) non potranno essere mantenute in toto.
Così come finora Obama ha fallito nel costruire uno “spirito bipartisan”. I repubblicani gli hanno voltato le spalle sul pacchetto di stimoli per l’economia, considerato «espressione del Big Government». Così al presidente non è restato che mettersi a navigare da solo. Ha impiegato “appena” cinquanta giorni a capire che il Congresso non avrebbe dato luce verde al finanziamento federale della ricerca sulle cellule staminali embrionali. Così il 9 marzo il presidente ha cancellato – questo sì come promesso – il decreto di Bush dell’agosto 2001. Un tratto di penna per mantenere una promessa e sconfessarne un’altra: lavorerò con l’opposizione.
Alberto Simoni www.tempi.it